TERRACOTTA

Terracotta, e basta. Non c’è una traduzione in altre lingue per questo sostantivo. In Giappone come negli Stati Uniti si usa l’italiano. Terracotta. 

Un materiale vecchio di millenni, usato moltissimo dagli Etruschi, migliorato nell’ingegneria civile dai Romani e riscoperto nel Rinascimento da artisti ed architetti sensibili a questo materiale povero, ma prezioso.

Venite a Firenze, girate la città, salite sui terrazzi se potete, entrate nelle vecchie case. E poi uscite in campagna, entrate nei giardini comuni ed in quelli delle belle ville sui poggi assolati, infilatevi nelle cantine, nei monasteri, nelle chiese. Troverete terracotta ovunque.

Che poi non serve neanche tanto cercare, basta alzare lo sguardo da qualsiasi punto – o quasi – voi vi troviate se siete in città. Ed eccola lì, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani (L. B. Alberti), una mole immensa costruita mattone su mattone, tegola su tegola dal più grande degli architetti: la Cupola di Santa Maria del Fiore. Quando Filippo Brunelleschi dovette affrontare il problema della costruzione della più grande cupola mai vista senza l’ausilio delle centine di sostegno non ebbe dubbi: terracotta. E tanto genio. L’Opera del Duomo fece arrivare – durante i sedici anni impiegati per la sua costruzione –  gli otto milioni di mattoni dalle fornaci della piana di Sesto, dove le alluvioni dell’Arno crearono nei millenni ampie aree argillose.

E per concludere il lavoro e proteggere il prodigio con embrici (leggi tegole) realizzati ad hoc, Filippo si rivolse ai mastri fornaciai dell’Impruneta, dove ancora oggi si realizza il miglior cotto del mondo, resistente a temperature inferiori ai -20 gradi, incredibilmente leggero e poroso. Qui ancora oggi si realizzano a mano i grandi orci, un tempo utilizzati per conservare l’olio d’oliva ed oggi buoni per l’affinamento in anfora dei vini moderni, così freschi e ricchi di sapori primari e – grazialcielo – così lontani dai vecchi e pesanti rossi invecchiati in barrique di rovere.

All’Impruneta, come si dice qui, trovate, tra le tante fornaci moderne che producono soprattutto cotto per pavimenti ed eccellente materiale edile, qualche fornace storica dove esperti artigiani realizzano creazioni uniche con l’utilizzo delle stesse tecnologie degli Etruschi. Cercate la Fornace Masini e chiedete di Tiziano. Se siete fortunati lo troverete intento a realizzare i suoi orci con la tecnica del colombino, un “lavoro fondato” che non usa stampi ma solo le mani che da decenni seguono a memoria il percorso esatto.

Nella stanza troverete solo qualche semplice strumento per lisciare la creta, qualche squadra e tanta polvere. La corrente qui serve solo per illuminare l’ambiente nelle lunghe sere invernali o per alimentare un piccolo ventilatore quando il sole estivo non dà tregua. Un luogo questo dove, se si eccettua la radiolina che gorgheggia rauca la musica di Vasco Rossi, pare di fare un salto di duemila anni indietro. E dove capirete un sacco di cose riguardo a Firenze ed il suo territorio.

In Toscana la terracotta non è solo un materiale, è uno stato d’animo. Il calore atmosferico che emanano le grandi stanze delle coloniche, ricoperte da un tortuoso pavimento di cotto ed incoperchiate delle stesse pianelle, è lo stesso di quello che fuori dalle finestre restituiscono i grandi vasi e le conche di cotto, spesso appoggiate su grandi terrazze rosse nei giardini delle ville, anch’esse – di dentro – imbellite dal cotto. 

La terracotta è un materiale popolare. Non guarda alla classe sociale, è un materiale democratico, patrimonio di tutti. E così tutti gli edifici sono ricoperti con quelle stesse tegole e coppi che gli Etruschi usavano per coprire i loro edifici, fossero ricchi templi o misere case di contadini. Se non ci credete andate a Cortona, entrate nel museo archeologico e cercate il frammento di tetto rinvenuto nei paraggi della città etrusca. Lo stesso materiale, la stessa tecnica. Coppo (tondo) e tegola o embrice (piatto). Geniale e praticamente lo stesso dal momento della sua invenzione.

Riesce difficile immaginare quale fosse la ricchezza artistica ed architettonica della cultura etrusca, perché di loro ci è arrivato poco o nulla. Un po’ perché questo popolo fu praticamente cancellato dalla civiltà romana, un po’ perché – a differenza di romani e greci – gli Etruschi amavano materiali deperibili come il legno e, appunto, la terracotta. 

Quando nel 1916 Giulio Quirino Giglioli dissotterró i frammenti dell’Apollo di Veio – oggi a Villa Giulia, Roma – , la storia dell’arte batté il capo contro qualcosa di nuovo ed inaspettato. Le idee di Winckelmann, lo studioso che nel XVII secolo aveva letteralmente creato il mito della classicità greca, erano considerate ancora il vangelo dell’arte, ed il V secolo a.C. era considerato il momento più sereno della storia non solo dell’arte, ma dell’intera umanità. Tutto, prima e dopo quel battito di ciglia impallidiva e peccava in qualche modo di inferiorità. La scultura in marmo bianco della civiltà greca era considerata il non plus ultra dell’arte. Già da Michelangelo, che riteneva la scultura “per porre” – che si modella, come si fa con la creta, per capirsi – non tanto nobile quanto la scultura “per tòrre” – quella in marmo insomma, dove sottraendo materiale non è ammissibile fare errori -. 

Chiaro.

Poi arrivò quest’omone di terracotta, semplicemente perfetto nelle sue proporzioni “greche” ma con quel suo incedere animale, vivo, e quel faccione pervaso di un sorriso che mai si era visto prima. Era un uomo, era umano. E tutto di terracotta. Per giunta dipinta. I greci avevano capito tutto ma noi, non avevamo (ancora) capito nulla degli Etruschi.

La statua a grandezza naturale se ne stava probabilmente sulla cimasa del tetto di un grande tempio dedicato ad Apollo nei pressi della grande città etrusca di Veio e fu scolpita tra il VI ed il V secolo a.C. Completamente dipinto di colori sgargianti, decorava con quel gusto quasi barocco l’ampia falda di terracotta che ricopriva l’edificio sacro, tra coppi, tegole e travi di castagno.

Filippo Brunelleschi non fu certo solo architetto. Conserviamo di lui delle sculture in marmo, ma le più inaspettate sono le sue madonne di terracotta. La mia preferita è una Madonna col bambino conservata al museo Bandini di Fiesole, una chicca fuori dai circuiti turistici, che incanta per la qualità della realizzazione, per il vigore plastico esaltato dal colore ma soprattutto per l’umanità che lega un bimbo e sua madre. Uno spettacolo magnetico anche per chi che come me non crede va oltre il messaggio religioso, per ritrovare un mondo domestico.

Di umanità ne sapeva sicuramente il migliore amico di Filippo, Donatello.

Donatello era uno scultore. Non sapeva fare (quasi) nient’altro,  ma sapeva scolpire qualsiasi cosa: bronzo, marmo, pietra Serena, legno e ovviamente terracotta. 

Visto che siete a Firenze entrate nella basilica di Santa Croce e trovate l’annunciazione Cavalcanti. Meravigliosa opera in pietra Serena, ritenuta materiale povero, è arricchita da belle lumeggiature dorate che accentuano il passo di danza della Madonna che retrocede alla vista dell’angelo annunciante.

Ma appena i vostri occhi si saranno abituati all’oscurità di quell’angolo guardate più in su. E ditemi se non sembrano vivi quei putti di terracotta che giocano sulla cimasa sprezzanti del pericolo di cadere giù. Qui siamo fuori dall’ambito sacro, serio, solenne. Qui la vita trionfa. Qui l’umano può avere il suo spazio nel mondo, ed è fatto di terracotta.

A Firenze poi si trovavano due grandi botteghe che si erano specializzate nella produzione della terracotta invetriata: i Della Robbia ed i Buglioni. Una moda esplosa tra i ricchi mercanti e banchieri della città che facevano a gara per esporre sui loro palazzi e nelle loro cappelle di famiglia questi accrocchi dai colori sgargianti, a volte decisamente kitsch, realizzati in argilla poi colorata ed invetriata, cioè ricoperta da uno strato di silice che in seguito alla cottura dava un effetto lucido che Jeff Koons in confronto è elegante. 

I Della Robbia, i più famosi, seguivano la tecnica del suo inventore, Luca, raffinato -lui sì, davvero – artista e secondo me l’unico ad aver realizzato veri capolavori utilizzando questa tecnica. 

Se siete ancora a Santa Croce guardatevi un po’ in giro, ne troverete diverse di “robbiane”. Quella più spettacolare è opera di Luca e sta proprio davanti all’ingresso della cappella Pazzi, sì anche quella del nostro amico Brunelleschi, incastonata nella volta a botte del portico. Se volete riempirvi gli occhi uscite dalla chiesa e fate due passi fino al Museo del Bargello. Qui troverete non solo una immensa collezione di terracotta invetriata, ma anche i capolavori di Luca, raffinati e preziosi. Per le altre Robbiane, soprattutto per quelle di Giovanni – l’ultimo celebre membro della famiglia – consiglio di indossare occhiali da sole polarizzati.

Andrea invece mantenne quasi sempre quella pulizia e grazia apprese dallo zio Luca, e realizzò bellissimi ritratti dell’aristocrazia cittadina, il più bello lo trovate nella sala dedicata a lui, un ritratto di ragazza che dá alla terracotta la meritata importanza.

E oggi? Nonostante l’arte della terracotta e del vasellame oggi sia relegata a una posizione secondaria, accessoria, applicata (al contrario del mondo antico quando l’arte era arte e basta), Firenze ed il suo territorio sono ancora terra di sperimentazione per questo media.

Marino Marini, artista “etrusco” come lui si definiva, riscoprí la terracotta per realizzare non solo i suoi bozzetti, ma anche opere grandi, che acquistano un calore che solo l’argilla riesce a dare. Andate a vederle al – purtroppo – semideserto museo nella chiesa di San Pancrazio, una chicca nel cuore di Firenze che vi darà più di quanto vi aspettiate.

E decine di installazioni in terracotta troverete dislocate sulle colline fiorentine e toscane se saprete dove cercarle, e vederle. Una delle mie preferite si trova a San Casciano in Val di Pesa, all’interno del giardino della Fattoria la Loggia (ma si vede bene anche dalla stradina di campagna che la costeggia) realizzata da Franz Stahler e si chiama Orci Volanti. Alti trampolini metallici sostengono e spingono verso il cielo grandi orci di terracotta, creando una sensazione onirica e spirituale in questo monumento alla campagna del Chianti. Se non volete infilarvi in un museo o una collezione privata, potete restare all’Impruneta e andare a vedere un’altra fornace storica: Poggi Ugo. Lì troverete diverse installazioni, la più scenografica è il grande anello di 7 metri di diametro realizzato da Mauro Staccioli, artista del paesaggio che qui si è misurato con il genius loci imprunetino.

Oggi che viviamo questo mondo globalizzato in cui la scelta di un materiale è dettata spesso unicamente dal mercato -non importa da dove venga, costa meno – la terracotta è un materiale necessario e salvifico. Alla nostra cultura prima che alla costruzione di un buon tetto. Salire alla chiesa di San Miniato e perdersi sul tappeto rosso spento che copre i palazzi di Firenze è un atto di consapevolezza. Non potremmo essere in nessun altro luogo che a Firenze. Ci dice dove siamo, ci dice anche chi siamo, perché ci informa sulla sostanza stessa che compone la nostra quotidiana esperienza di un luogo.

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