“Se la gente ch’al mondo più traligna
Paradiso, canto XVI
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca”
Girando per le colline della Toscana è impossibile non imbattersi in strane presenze, sparuti ricordi di pietra. Li trovi a lato della strada, oppure a confine dei campi, magari all’ombra di qualche vecchio cipresso spettinato. Logori di muffa sulle pareti scrostate, sono come fotografie del tempo. Il tempo che si manifesta e si fa sostanza. I giapponesi hanno un termine esatto per definire questa dimensione dell’anima: “wabi sabi”.

Sono spettri, fantasmi del paesaggio. Sono lì sembrerebbe da sempre, e restano come testimonianza evanescente di fatti che hanno disegnato il paesaggio così come lo vediamo.
Sono tabernacoli, torri diroccate, vecchi mulini in abbandono, cappelle votive. Residuati architettonici di un qualcosa che un tempo fu grande, oppure piccole isole di devozione, ripari per viandanti sperduti sulle mulattiere solitarie.

Uno di questi fantasmi si trova sulla sommità di una collina tra Firenze e Siena. Solitaria ed imponente, un poco nascosta sotto l’ombra di qualche cipresso, riposa la cappella di San Michele Arcangelo. Intorno solo -bellissimi- campi, qualche stradina, e nessun’altra traccia di manufatto.
Sorge spontanea la domanda: cosa diavolo ci fa una cappella che sembra la copia in miniatura della cupola del Brunelleschi in mezzo al bel niente?

Fu nel 1594 che messer Giovan Battista di Neri Capponi decise di infrangere un divieto secolare e costruire questa cappella proprio nel centro della scomparsa città di Semifonte.
Ancora un passo indietro.
Siamo nel 1177 e La Repubblica di Firenze è un libero Comune molto potente. Tanto potente che lo stesso imperatore Federico Barbarossa, ormai agro della baldanzosa Firenze, chiede al fido scagnozzo Alberto IV degli Alberti, quelli che avrebbero fondato Prato -per intenderci-, di rafforzare la cintura di castelli e rocche intorno alla spocchiosa città del Giglio per tenerla a bada.
È così che nasce Semifonte e si aggiunge ai castelli di Pogna, Certaldo, Castelfiorentino e via dicendo. Ma Semifonte in breve tempo diventa una città vera, forte, autonoma e arrogante almeno quanto la vicina Firenze.
Nel 1182, cinque anni dopo, Firenze dichiara guerra a Semifonte e ottiene subito i primi risultati: gli abitanti di Pogna, il vicino castello che forniva uomini e materie prime per la costruzione del borgo nascente, fecero solenne promessa di abbandonare ogni progetto e di non costruire più niente nella zona di Semifonte. Diplomazia.
Tempo un paio d’anni per far calmare le acque, ed ecco che gli Alberti riprendono la costruzione della roccaforte, che continua a crescere sempre di più. Le sporadiche nuove minacce da parte di Firenze non spaventano gli abitanti di Semifonte, che le prendono anzi decisamente sottogamba.

Cresceva in fretta non solo la città, ma anche il suo orgoglio, tanto che la gente di Semifonte si prese il gusto di andare fin sotto le mura fiorentine per canzonarli: “Firenze fatti in là, che Semifonte si fa città”.
Firenze non la prese molto bene: nel 1198 mosse guerra contro la città ribelle. Il tempo di conquistare i castelli nei dintorni per completare lo scacchiere e nel 1202 Semifonte venne… totalmente ed irreversibilmente rasa al suolo.
Ogni singola pietra di quella città – che tanto aveva osato – fu portata via, per sempre. Gli abitanti sfollati, molti dei quali presero rifugio nella vicina Certaldo.
Siamo nel 1202 e, per ordine della Repubblica di Firenze, venne redatto il divieto assoluto di costruire qualsiasi tipo di edificio su quella maledetta collina.
È chiaro, dietro questa distruzione scientifica stanno ben altre motivazioni: il controllo politico della Valdelsa e della vicina Via Francigena (che al tempo era una vera e propria miniera d’oro), e una serie di intrallazzi che vedevano imperatori, papi, comuni, abbazie e signorotti dell’aristocrazia contadina, allearsi e tradirsi a seconda del cambiare del vento, come era d’uso nel Medioevo.
L’editto fu rispettato sempre alla lettera fino a quando, nel 1594, tale messer Giovan Battista di Neri Capponi, fiorentino illustre, canonico di Santa Maria del Fiore nonché proprietario della villa di Petrognano – il borgo fuori le mura di Semifonte che si salvò miracolosamente dalla collera fiorentina – riuscì a strappare una delega all’allora Granduca Ferdinando I de’ Medici, e su progetto nientepopodimeno che di Santi di Tito fece erigere la cappella di San Michele Arcangelo, la cui cupola riproduce la sorella maggiore di Firenze, solo otto volte più piccola (e forse meno aggraziata? ndr).

Percorrendo il dorso della collina sulla bella strada che porta a questo posto magico, si capisce bene il motivo per cui il Granduca concesse una tale deroga: la piccola cupola che svetta dalle creste dei cipressi e si staglia sul cielo toscano è il simbolo stesso della potenza fiorentina, impiantato su queste colline deliziose per sempre, a ricordare al mondo la fine che fece chi osò sfidare Firenze.
