Dolio: storie di un giardino in Toscana

In questo posto i sassi sono lisci e quando piove c’è da cascare.

L’arenaria, levigata da millenni d’acqua scorsa, non va d’accordo con gli zoccoli: ti frega appena ti distrai e ti mette col culo a terra senza preavviso. Ma ho schiena lunga e zampe corte: cado spesso, ma cado bene. Quando è asciutto invece, vado su e giù come un gatto sulle terrazze del quarto piano.

Il mio nome è Dolio, e sono il giardiniere di questo luogo. Vivo da un sacco di tempo su questi monti in Toscana.

No, non quella Toscana da cartolina che vi si è appena stampata in testa come lo spot di una berlina: morbide colline, paesino medievale, gattino sulla finestra, cipressini in fila. No. Qui non siamo nel cuore di niente. Questo è un margine. Un confine. E i confini, si sa, son posti strani: succedono cose. Si mescolano le acque, le specie, i tempi. E se ti fermi ad ascoltare, credimi, puoi ancora sentire qualcosa.

Prendi il mese di maggio. Il bosco si inzuppa: l’acqua scende e si infila tra le radici, fino allo scoglio di arenaria che dorme sotto la lettiera. Una pietra grigia, calda, con la pelle liscia come il dorso di un pesce di fiume. Bastano due passi sul sentiero – quello che taglia in costa, tra il leccio e il sambuco – per sentire una varietà di canti d’uccelli che, con un po’ di cuore, ti fa intuire cosa doveva essere questo posto, una volta.

Un tempo in cui i cieli erano pieni tutto l’anno, e le genti salivano fin quassù per ascoltarli. Per leggere, nei voli e nelle picchiate, l’umore degli dèi. Erano altri tempi. Ma io ero qui e sono ancora qui.

Satiro mi chiamava qualcuno, qualcun altro Silvano. Uno diceva di avermi visto e parlava di Sileno. I più affezionati mi raccontavano Fauno. Ma io sono Dolio. Giardiniere dei luminosi poggi della folgore. Custode di quel che resta, e di quel che potrebbe ancora tornare.

Sopra di me c’è l’Appennino, un gigante con la barba di faggio e l’alito di lupo, che sa di continente e tramontana. Sotto di me, le colline calcaree che dagli Etruschi in qua danno un vino che è una bomba; e più giù – splendente nel suo placido girone infernale – c’è Firenze. 

Se volgo l’orecchio adunco da una parte, il vento parla tra le fronde degli abeti; se mi giro dall’altra, la barba mi s’impregna di salsedine. Quassù, con le campane del Duomo, arriva anche l’ultimo respiro del Mediterraneo.

Qui ci salgono camminatori, fungaioli, preti con la renault quattro, nonnine col rosario, montanari da outlet – con la maglietta tecnica e il bastoncino in carbonio -, babbi con bambini dentro lo zaino, mamme in pausa con il podcast sparato nelle cuffie, cani coi loro padroni attaccati, coppiette arrapate, boy scout sfigati e qualche nostalgico della Resistenza troppo codardo per farla sul serio. E poi quell* che non si possono classificare perché invece si prendono troppo sul serio.

Ma non è mica sempre stato così, intendiamoci.

Ogni volta che avete avuto fame siete venuti qua a masticare la miseria. I vostri parenti hanno tagliato alberi, sventrato sentieri, portato la luce arida del sole dove regnavano ombra e umidità. Sotto la pelle delle foglie in decomposizione svapora ancora l’odore rancido del burro di vacca, o quello ovattato della farina di castagne, e nel silenzio più puro ancora vive l’eco crepitante delle carbonaie, i canti antichi delle transumanze.

E poi avete rotto l’equilibrio. E anche un po’ il cazzo, diciamolo.

Ma siete una stirpe che si annoia in fretta e allora vi siete lasciati incantare dalle luci al neon del vostro teatrino capitalistico. Attratti come le zanzare, siete rotolati giù verso la città moderna. 

Meglio così. Noi siamo tornati e il Giardino ha ripreso a fiorire.

Ora le eriche crescono là dove erano i pascoli, i cisti sui suoli sfigurati dal rumine delle vacche. I muretti a secco eretti per dividerle, ora riposano all’ombra di alti lecci, e il polipodio li veste di verde. Il capriolo e il daino si scornano per le femmine in calore, e lupi e volpi e tassi hanno di che sfamarsi. La Vita e la Morte, il Giorno e la Notte. L’alba ed il Crepuscolo. Letame e fiori. La fretta ha lasciato questi posti ed è tornata la vita.

Giardiniere dei luminosi poggi della Folgore. Mi prendo cura di questo giardino mentre voi siete via. Potrei dire che il mio mestiere è amare questo mondo al posto vostro. 

Che senso avrebbe tornare a Itaca se Itaca è andata in malora?

Mondo (kosmos) per i greci era la stessa cosa di cosmetico: insomma duemilacinquecento anni fa gente come voi  pensava che il mondo fosse un meraviglioso, ordinato ornamento. Pensavate – porca puttana – che il Mondo e la Bellezza fossero la stessa cosa. Uno stormo di uccelli che vira improvvisamente, la veste di una donna mossa dal vento, le infinite varietà di verde delle piante a maggio, la tabellina del nove: il mondo, prima che cominciaste a pensarlo come una discarica di materiale inerte da utilizzare, era il luogo della bellezza. Era la bellezza.

E oggi che vi siete rincoglioniti con questa storia della crescita, pensate che la vostra idea mercantile, economica, positiva del mondo potrà salvarvi ancora una volta il culo. Lo avete calcolato, d’altronde. E così vi siete inventati la Sostenibilità. Stampare, impacchettare, spedire, viaggiare, installare pannelli solari, distribuire volantini, regalare  gadget per inquinare meno e salvare il mondo.

Avete messo la foglia di fico sul pube della vostra coscienza e l’avete chiamata “transizione ecologica”.

Il bosco non parla di sostenibilità. Il bosco è o non è.

Non fa bilanci, non misura emissioni, non chiede certificazioni. L’edera soffoca il pino, che cadendo spezza il tronco ad un giovane frassino, senza che nessuno debba trovare una morale. Il bosco cresce e muore, si intreccia, cade, rinasce. E quando lo ascolti, se lo ascolti davvero, ti accorgi che non c’è nulla da salvare. Ma perché salvare poi? Millecinquecento anni di pensiero cristiano riassunti in una parola: salvare. Qui non c’è niente da salvare, non c’è nessuno da redimere, nessuno che vi fa gli occhioni per chiedere aiuto. Qui c’è da riconoscere, c’è da tornare a vedere, ascoltare, odorare. 

Toh, ha smesso di piovere. Ve lo spiego un’altra volta.

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